Quanta CO2 viene emessa durante l’intero ciclo di vita di un prodotto? E’ questa la domanda che si è posta Progeva, azienda di compostaggio di rifiuti organici di Laterza (Ta), che nel 2013 ha attivato un progetto di analisi degli impatti dovuti alle emissioni di gas climalteranti relative alla produzione dei propri fertilizzanti biologici. Da sempre attenta alla qualità e alla compatibilità ambientale delle proprie attività, Progeva ha aderito al “Bando pubblico per il calcolo dell’impronta di carbonio nel ciclo di vita dei prodotti di largo consumo”, indetto dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare con il progetto “Impronta di carbonio e individuazione di misure per la riduzione delle emissioni riferite al ciclo vita dell’ammendante compostato misto”.
Con il supporto tecnico-scientifico della società Agreenment srl, Spin-Off Accademico dell’Università degli Studi della Basilicata, Progeva ha effettuato la “Valutazione del Ciclo di Vita” dei prodotti, dei processi e delle attività lungo l’intero ciclo di produzione dei fertilizzanti, dall’acquisizione delle materie prime fino all’esaurimento/smaltimento e/o fine vita (dalla culla alla tomba). Sono state analizzate 6 tipologie di prodotto differenziate per composizione e per imballaggio.
“Quando la Società Agreenment venne da noi a presentarci il Bando del Ministero, – commenta Lella Miccolis, Amministratore Unico Progeva – la prima cosa che pensai fu che non ne avevamo bisogno, perché la nostra era già un’attività green, in quanto l’uso del compost in agricoltura era già di per sé una pratica ecologica: il compostaggio permette il recupero in condizioni controllate di matrici organiche selezionate, altrimenti destinate allo smaltimento in discarica. Inoltre, era ormai risaputo come la distribuzione del compost al suolo determinasse un progressivo accumulo di carbonio nel suolo stesso. Invece, riflettendoci con più calma, ci siamo resi conto che sino ad allora nessuno aveva mai indagato l’impronta di carbonio nelle fasi antecedenti e successive al processo produttivo, in particolare la raccolta dei rifiuti ove avviene, il trasporto dei rifiuti in ingresso, la miscelazione del compost con altre materie prime, il confezionamento, il trasporto dei fertilizzanti in uscita, la commercializzazione dei fertilizzanti e l’utilizzo degli stessi. E quindi la domanda che mi sono posta non è più stata “Perché farlo, ma bensì perché non farlo”.
La prima fase si è conclusa lo scorso settembre ottenendo i risultati della carbon footprint dei prodotti e la loro certificazione a opera dell’ente di certificazione Rina in accordo ai requisiti dello standard ISO/TS 14067:2013.
L’analisi, effettuata su dati del 2012, ha evidenziato come le emissioni di CO2 equivalenti siano concentrate prevalentemente nelle fasi precedenti e successive alla produzione stessa e, in particolar modo, nella fase legata al trasporto delle materie prime e dei rifiuti che incide per circa il 75% del totale.
“Siamo soddisfatti del lavoro svolto sinora – conclude Miccolis – Il passo successivo sarà lo studio di azioni di mitigazione e di compensazione delle emissioni rilevate. Le aziende oggi giorno sono chiamate, per riuscire a sopravvivere, a superare molte sfide, e ce n’è una che le aziende devono vivere come un’opportunità e non come un problema che è quella ambientale perché diventa un’occasione imprescindibile per poter migliorare le proprie perfomance anche di tipo economico attraverso la razionalizzazione ed efficientamento dei propri processi di produzione, la riduzione degli sprechi e dei consumi, la riprogettazione dei propri beni e servizi. A cascata, poi, le imprese devono cercare di incidere sui modelli di consumo ormai non più ambientalmente ed economicamente accettabili”.